Finissage della mostra di Maurizio D'Agostini
TheArtsBox - ore 18.30
Oltre il confine: riflessi dell’invisibile nell’opera di Maurizio D’Agostini
Conversazione con l’artista a cura di Agata Keran
Che lingua parlano le molteplici creature plasmate da D’Agostini? Nascono sicuramente dal grembo fecondo dell’arte veneta e del suo paesaggio culturale, di ieri e di oggi. Come non riconoscere il riflesso ideale di Borgo Casale e di Costozza, del fiume Brenta e dell’Astico? La fantasia generosa dell’autore non abita solo nel mondo siderale, ma diventa una forma di arte integrata, capace di inserirsi senza soluzione di continuità nel proprio ambiente naturale.
Riflessione
Ho incontrato Maurizio D’Agostini per la prima volta negli anni novanta del secolo scorso. Quel secolo breve, come lo chiama Erik Hobsbawm, in cui lo spirito libertario dell’uomo rimase travolto da indicibili violenze del suo prossimo. Homo homini lupus. Il secolo dei paradossi estremi: tempo di Hitler e di Stalin, di Gandhi e di Madre Teresa di Calcutta. Il secolo delle ceneri e della gioia ritrovata, dell’olocausto e della fenice.
A prima vista, non compresi appieno il verbo interiore dell’artista, lontano allora dal mio animo schiacciato dall’onda selvaggia della guerra nei Balcani. Dovette passare qualche tempo, di silenzio e di contemplazione, prima di accogliere appieno le creature incantate di Maurizio e il loro limpidissimo e tenace soffio spirituale.
Che lingua parlano queste opere? Nascono dal grembo fecondo dell’arte veneta e del suo paesaggio culturale, di ieri e di oggi. Come non riconoscere il riflesso ideale di Borgo Casale e di Costozza, del fiume Brenta e dell’Astico? La fantasia poliedrica dell’autore non abita solo nel mondo siderale, ma diventa una forma di arte integrata, capace di inserirsi senza soluzione di continuità nel proprio ambiente naturale. Ma di che natura si tratta, esattamente?
I tesori della terra: argilla, pietra, metallo. Resi docili grazie al fervido ingegno dell’artista. Tramutati in oro mediante la linfa viva dei sogni. “L’arte è un sogno sostenuto”, diceva il teologo russo Pavel Florenskij. Un sogno decantato da impurità fisiche ed elevato verso il cielo, senza recidere comunque il laccio con la vita vissuta, con i sentieri calpestati, con le stagioni campestri e umane.
Ecco quindi un nuovo dilemma: la terra d’origine dell’artista riguarda solo i luoghi del Palladio a Campedello, del Muttoni a Orgiano, del Canova a Possagno? No, decisamente. Le sue figure simboliche si nutrono di una linfa poetica affine ai versi di Pietro Bembo, dove la campagna amena di Asolo diventa metafora di un sentimento universale del mondo, intessuto di segni e di simboli di un passato proteso verso l’infinito, verso un divenire misterioso oltre i confini del visibile.
Contemplando le opere in mostra, con uno sguardo vespertino, torna in mente la memoria di un profumo sensuale: il melangolo. Tra Quattro e Cinquecento, il pensiero neoplatonico attribuisce a tale frutto un’aura addirittura sacrale, quella dell’amore. Dolce come le carezze e agro come l‘affetto non ricambiato, esso allude anche alla sapienza del cuore, forma di ascesa interiore verso la perfezione. Il melangolo orna anche un famoso dipinto di Giorgione da Castelfranco, in cui sono ritratti due giovani di umore opposto: uno gaio ed estroverso e un altro, con il volto corrucciato, chiuso in se stesso, memore forse di un lacerante sconforto.
L’immaginario umanistico legge in quest’ultimo viso il temperamento di melancholia, intesa come uno stato di perenne inquietudine, alla radice della spinta esplorativa del viaggiatore, del poeta, dell’artista. Il “melancholico” non si ferma di fronte a un limite prestabilito, lo scardina impetuosamente per aprire un altro varco. Al traguardo, la beatitudine lascia subito lo spazio all’ansia costante della ricerca. In questa condizione esistenziale, in bilico, ogni giorno è una corsa sconosciuta sul carro del sole fino al tuffo nell’abisso della notte.
Ben tre opere esposte ricordano già nel titolo questo concetto antico, reso celebre nel mondo dell’arte grazie alle incisioni cinquecentesche di Albrecht Dürer, antenato spirituale del nostro artista. Credo tuttavia che il timbro profondo della melancholia segni il suo opus in modo diametrale. D’Agostini ama dialogare con le forze primigenie del creato: luce e buio, amore e morte, ordine e caos. E in questa sempiterna lotta, il pensiero espressivo dell’artista continua a imporsi sull’energia tragica della disgregazione.
Le gemme e i frutti maturi di questa psicomachia si mostrano al nostro sguardo nella loro forma finemente cesellata, votata alla compiutezza e all’armonia del cosmo. D’Agostini naviga dunque ostinatamente controcorrente: in un’epoca all’insegna della smaterializzazione dell’arte, scava con le mani tra le viscere della terra per trovare la lingua perduta degli uomini e del loro, detronizzato, Dio.
Agata Keran